i frutti dimenticati

i frutti dimenticati

 

 

“La biodiversità è la vita, la nostra vita”.

 

 

Quali sono i frutti che chiamiamo “antichi”? Basta andare indietro di due generazioni e già si può parlare di antichità. I frutti antichi sono quelli che, nell’arco di questi ultimi 30-40 anni, hanno conosciuto un lento e silenzioso abbandono per l’affermazione della frutticoltura moderna ovvero di quella cosiddetta industriale.

I frutti antichi sono espressione di un valore che può racchiudersi in un concetto: quello di biodiversità, l’agrobiodiversità, nel caso in esame, intesa come il risultato del processo evolutivo che ha generato, attraverso la selezione dei contadini, la molteplicità di animali e vegetali addomesticati.

I frutti dimenticati da anni conoscono un crescente interesse: il mondo della ricerca guarda con attenzione particolare alle vecchie varietà anche al fine del loro riutilizzo nell’agricoltura sostenibile e nelle biotecnologie. Occorre, inoltre, dare un riconoscimento al ruolo sociale delle agricolture storiche che conservano le varietà locali: così i consumatori stessi hanno possibilità di scelta e di recupero dei sapori perduti.

Il tema dei frutti antichi è vasto, complesso, anche perché non si ha un’idea precisa del numero delle tante varietà che ne fanno parte. In Italia il patrimonio varietale di interesse agrario è decisamente ricco, grazie all’eterogeneità geologica e agroambientale; ciò nonostante sono molte le cultivar andate perdute a causa principalmente dell’agricoltura intensiva.

I contadini sono ancora, ma non per molto, custodi di questo straordinario patrimonio genetico, frutto di selezioni millenarie. Nella loro memoria si conservano conoscenze che sono preziose. Se da una parte è chiaro che occorre salvare questi tesori, dall’altra si ha a che fare con i paradossi e le aberrazioni del mercato che spesso lavora nella direzione opposta. Le industrie alimentari e sementiere, ormai diventate grandi multinazionali, che in ogni momento possono imporre la frutta più richiesta dal mercato a discapito della biodiversità.

Gli alberi da frutto, che costituiscono una importante chiave di lettura temporale e strutturale del territorio, sono ormai di non facile riconoscimento in quanto la Natura si è con il tempo riappropriata di spazi che le erano stati sottratti. La figura del contadino, pertanto, si rivela strumento essenziale per ridare significato ai frutti antichi poiché, grazie proprio alla loro memoria, risulta possibile recuperare conoscenze intorno ai nomi, agli usi, agli aspetti agronomici di tali prodotti. I frutti antichi debbono essere considerati elementi culturali, cioè “creazioni” del contadino che li ha selezionati fra diverse cultivar, e curati, privilegiando alcune caratteristiche, quali la forma, la resistenza, la qualità alimentare e la produttività; inoltre li ha addomesticati attraverso pratiche colturali condivise in ambito locale.

In Italia, alla già rilevante biodiversità spontanea, si aggiunge quella ottenuta dalla selezione anche in sinergia con specifici adattamenti alla diversità ambientale. I contesti ove questi adattamenti sono stati possibili sono quelli delle agricolture tradizionali, in gran parte oggi sostituiti dalle coltivazioni industriali, concepite, invece, secondo modelli che prevedono l’adattamento dell’ambiente alla specie coltivata, con conseguente interruzione del legame tra specie e territorio. Queste diverse agricolture sono oggi presenti con collocazioni territoriali o fisiografiche distinte: le aree collinari interne sono destinate all’agricoltura tradizionale, mentre le aree pianeggianti all’agricoltura industriale. I due sistemi si differenziano anche su un piano formale perché quelle tradizionali si percepiscono indubbiamente complesse per la loro ricchezza anche paesaggistica, mentre in quelle industriali è evidente una certa semplificazione in termini di ambiente che risulta monotono (monocolture), ripetitivo e monocromatico. Le conseguenze negative sul piano ambientale e sociale sono la marginalizzazione e l’abbandono delle agricolture storiche, il degrado del paesaggio, l’avanzamento del bosco e delle boscaglie su ex coltivi. L’intensificazione produttiva, poi, ha apportato problemi di depauperamento, inquinamento dei suoli, rischi alimentari, nonché, come si diceva, una generale perdita di diversità paesaggistica. Si è anche interrotto lo stretto legame tra coltivazioni e allevamenti, utile nell’applicazione delle pratiche di letamazione, del riciclo dei residui colturali e delle rotazioni. L’uso massiccio di diserbanti ha ridotto la presenza di vegetazione spontanea e la semplificazione degli ambienti ha determinato l’allontanamento della fauna selvatica legata alle stesse coltivazioni.

I frutti del passato sono elementi basilari delle agricolture tradizionali. Ogni frutto antico o locale non rispecchia solo i caratteri ambientali a cui è legato, ma risponde anche a precise tecniche agronomiche necessarie a ottimizzare le risorse disponibili, comprese quelle umane. Non si devono dimenticare i limiti di queste agricolture, in realtà costruite su risorse scarse o poco disponibili e, pertanto, con risposte produttive non sempre sufficienti. Da sole, però, hanno, nella maggioranza dei casi, sfamato intere comunità con un’alimentazione varia e soprattutto sana; la diversità frutticola ha rappresentato infatti una importante fonte alimentare, ricca anche sul piano nutrizionale.

Il concetto di agrobiodiversità non è ancora entrato nel linguaggio comune, ma viene utilizzato soprattutto dagli addetti ai lavori. Secondo Büchs “l’agrobiodiversità è la ricchezza di varietà, razze, forme di vita e genotipi, nonché la presenza di diverse tipologie di habitat, di elementi strutturali (siepi, stagni, rocce, ecc.), di colture agrarie e modalità di gestione del paesaggio.”

La biodiversità, sia vegetale sia animale, può essere vista anche come processo evolutivo e di relazione fra diversità ambientali e culturali che comportano una grande varietà di prodotti agricoli e gastronomici connessi a un territorio specifico: salvare la biodiversità significa, quindi, salvare un patrimonio genetico, economico, sociale e culturale di straordinario valore, fatto di eredità contadine e artigiane non sempre scritte, ma ricche e complesse. La scomparsa di varietà o di razze si traduce in una rinuncia ai sapori autentici legati al territorio e alla cultura dell’uomo che ha saputo selezionare nel tempo questo variegato insieme di sapori e saperi. I motivi di questa drastica riduzione sono da ricercare nelle strategie della commercializzazione moderna che richiede prodotti sempre più uguali e costanti nel tempo, spesso a scapito della qualità perché la standardizzazione è appiattimento, mentre la diversità è un valore.

La varietà colturale è il frutto di secolari fatiche di contadini che dovevano condividere il prodotto prima con i loro proprietari e poi riuscire a garantirsi l’autosostentamento. Ecco le ragioni delle tante specie di frutta e della forte diversità all’interno d’ogni specie: c’era la mela che maturava a maggio, quella di giugno, quella d’agosto, di settembre: in tal modo si garantiva la presenza di nutrimento in un ampio arco dell’anno.

L’entità della perdita di biodiversità vegetale è accertata nei cereali, mentre è poco noto quanto la stessa abbia colpito l’arboricoltura: sono quasi scomparse dalla tavola e dalla coltura tante specie di cosiddetti frutti minori quali a esempio i gelsi neri, i corbezzoli, le carrube, i sorbi, gli azzeruoli, i cornioli e il fico.

tra i frutti antichi si possono trovare cultivar resistenti agli stress ambientali, ovvero piante come albicocchi e peri che fruttificavano

senza ricorrere all’irrigazione. Queste antiche varietà hanno particolari resistenze alla malattie e pregevoli sapori, sono selezioni la cui diffusione spesso non supera il territorio di un comune o addirittura di una contrada e che solo in pochi casi hanno superato i confini di una regione o di una provincia.

Cosa rimane di questa diversità? Quella che troviamo sulle nostre tavole è veramente ai minimi termini. Non si dimentichi che gran parte delle tipicità ortofrutticole italiane, quelle che poi diventano marchi Indicazione Geografica Protetta (IGP) e Denominazione di Origine Protetta (DOP), sono ecotipi locali, insomma frutti antichi.

 

I frutti antichi, risorse per un’agricoltura sostenibile

I frutti antichi possono giocare un ruolo decisivo per il rilancio di un’agricoltura sostenibile, di un’agricoltura di tipicità che si opponga alle tendenze globalizzanti: il recupero di terreni marginali e il rilascio di marchi DOP e IGP possono essere intesi come strategie per ritrovare qualità e tipicità in un’ottica di sostenibilità utile a contrastare gli impatti ambientali negativi, a preservare la capacità produttiva del terreno e a fare della tipicità la base strutturale dell’agricoltura italiana.

Si tenga ben presente che l’intensificazione produttiva (concimi, anticrittogamici, arature profonde) ha avuto, come è noto, impatti negativi sull’ambiente (inquinamento falde, impatti sulla flora e sulla fauna selvatica, degrado del paesaggio, ecc.). Un’agricoltura sostenibile necessita di varietà che fondamentalmente abbiano:

a. Un’elevata resistenza a stress idrici e termici

b. Un’elevata efficienza nell’utilizzazione dell’acqua nel terreno

c. Un’elevata efficienza nell’assorbimento e nell’utilizzazione dei ridotti ma equilibrati

apporti nutritivi

I tre punti esposti evidenziano, non a caso, i caratteri tipici delle varietà locali, le quali si distinguevano per un’elevata efficienza nell’utilizzare gli scarsi apporti fertilizzanti (quello che riusciva a dare il letame), una notevole resistenza agli stress ambientali (freddi, prolungate siccità estive) e una straordinaria serbevolezza (tanti frutti che si conservavano senza catene del freddo).

 

I frutti antichi e i cambiamenti climatici

La biodiversità è alla base di cibo e materie prime, di medicine e servizi ecosistemici, ma crea anche cultura, costituendo un vero e proprio capitale delle comunità locali e dei contadini: secondo Vandana Shiva, nel manifesto del cibo e cambiamenti climatici redatto nel 2008 dalla Commissione Internazionale per il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura, le aziende agricole biologiche e biodinamiche, ricche di biodiversità, aumentano l’efficienza di assorbimento della CO2 del 50% e conservano l’umidità del suolo del 10-20% in più rispetto alle aziende agricole industrializzate. L’agricoltura è l’unica attività umana che utilizza energia pulita attraverso il processo della fotosintesi ed è per questo che l’agricoltura sostenibile può essere totalmente rinnovabile. Inoltre, l’agricoltura è produttrice di cultura perché sono cultura tutte quelle attività che ruotano intorno a ogni varietà tradizionale, quali le modalità di coltivazione, di raccolta, di conservazione e di impiego nella preparazione dei cibi. Chi consuma questi prodotti tradizionali, fortemente legati al territorio e al cosiddetto “chilometro zero”, dovrebbe tenere ben presente che, così facendo, contribuisce al mantenimento delle aziende agricole tradizionali, spesso ubicate in aree marginali, dove l’uomo ha un ruolo fondamentale nel presidio del territorio stesso.

L’abbandono di realtà agricole tradizionali comporta la perdita progressiva di una ruralità determinante per il mantenimento degli equilibri ambientali e territoriali. La conoscenza delle dinamiche naturali e biologiche passa attraverso lo studio della struttura agricola tradizionale che, con i muretti a secco, le reti di siepi ed i frangivento, ha conferito al territorio un assetto strategico utile alla conservazione di tante specie animali, fungendo da serbatoio di biodiversità.

 

(Fonti: “Frutti dimenticati e biodiversità recuperata”, Quaderni ISPRA Natura e Biodiversità” 1/2010 – www.isprambiente.gov.it/it)

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(leggenda Kwatkiutl)